No Country for Old Men, Violence without Catharsis [ITA]

No Country for Old Men, Violenza senza Catarsi, un dialogo cinefilosofico [ITA]

A philosophical meditation over Cohen’s film in dialogue with professor Gabriele Guerra. In this conversation we tackled the ethical dilemmas the film raises for its characters and the audience at once.

Published on Frame On Line (online magazine) / Pubblicato su Frame On Line (rivista online)


Il bene si può solo ricordare: lo gnostico Bell

dilettante Vorrei partire dalla figura dello sceriffo Bell, l’uomo anziano che – lungi dall’incarnare la figura del vegliardo sapiente – si trova smarrito dinanzi all’ondata di malvagità e violenza che pare non comprendere . A me è parso significativo, ma anche straniante, che colui che dovrebbe essere il latore dei valori “sani” della nazione si astenga dal farli applicare come se fosse oberato da un necessità incombente più forte di lui.
Gabriele Guerra
– Non mi sembra che la posizione dello sceriffo sia descrivibile come “agnostica” intorno al problema del male: al contrario, lo sceriffo Bell mi pare una figura “ascetica” di rifiuto radicale del male. Come tutte le figure ascetiche – se preferisce, come tutti i “santi”: ma la definizione ci porterebbe in un contesto troppo specificamente religioso – lo sceriffo conosce bene il male del mondo, evidentemente lo ha combattuto, ma adesso è intervenuta una forma di ripensamento del proprio agire, che lo porta a modificare il suo comportamento (in fondo askesis in greco significa anzitutto “pratica”, e dunque non ci si muove da un contesto di filosofia pratica, ovvero sia etica), che lo porta sì a recedere da ogni “azione”, ma non necessariamente approdando alla “contemplazione” (che è l’antitesi intorno alla quale, come è noto, si costruisce la pratica ascetica cristiano-occidentale).


d.  – Lo stesso sceriffo Bell sta nella drammaturgia del western in maniera assolutamente eterodossa. Non è coraggioso, anzi lo si direbbe pavido. È un ‘bifolco’, dice addirittura uno dei cattivi nel libro e McCarthy non si perita di tutelarlo. Nel film, ma più ancora nel libro, Bell rimpiange i tempi andati,  in un atteggiamento misto di cinismo e disincanto verso questo mondo. Ma questo discorso sulla tradizione perduta non ha origini antichissime, già nel primo Aristotele? Come mai ritorna continuamente nel senso comune e nella trama di quest’opera?
G.G. – È vero, Bell incarna tutto quello che nei film western non siamo abituati a considerare l’”eroe”. Ma occorre approfondirne la figura. Chiave di comprensione del suo atteggiamento è invece il “sogno” che racconta alla moglie verso la fine del film: il padre cavalcando lo sorpassa, portando dinanzi a sé una fiaccola accesa, in viaggio su una strada in cui accendere un nuovo falò per dare il via a qualcosa come un nuovo inizio. La dialettica luce/tenebre su cui è costruita l’intera parabola (ovvero, quel processo asintotico che attraverso una similitudine ci porti ad avvicinarci alla “verità”, che è in fondo il nocciolo del raccontare) serve evidentemente ad articolare un problema (religioso, ma non solo) specificamente moderno: il rapporto inceppato con la tradizione. A questo proposito non so se si tratta qui del primo Aristotele, come lei accenna; con questa dialettica intendevo piuttosto un dispositivo concettuale antichissimo – per non dire archetipico – che forse, semmai, ritroviamo in Platone (ma che preferisco riferire al contesto neotestamentario, in particolare al Vangelo di Giovanni). Il fatto cioè che il mondo sia irreparabilmente scisso in una parte illuminata e una (ancora) oscura implica non solo una dialettica spaziale, ma anche una per così dire morale: da un lato vi sono coloro che ancora sono dominati dalle tenebre, che non sanno vedere e che continuano per questo a praticare il male; dall’altro invece, coloro che, illuminati dalla luce della salvezza (dalla verità del Messia), sono in grado di vedere il mondo nelle sue effettive connessioni (e sconnessioni) – una dialettica insomma tra eletti e non.
Ma torniamo al rapporto inceppato con la tradizione: mentre cioè una catena “naturale” di trasmissione del sapere salvifico (la fiaccola che illumina il percorso) prevede il passaggio di padre in figlio, il periodo gnostico in cui vive l’azione del film, ovvero la percezione di un mondo impregnato di male, ne provoca la rottura; e se il compito della tradizione era sempre stato quello di ripetere gli stessi gesti, onde apportare e mantenere un ordine al cosmo (Eliade), adesso diventa solo quello di interpretare il messaggio stesso che in quei gesti era contenuto; dopodiché, si tratterà soltanto di ricordare il messaggio in sé; e poi di perpetuare quel messaggio senza comprenderlo; e così via, in un processo di inesorabile sottrazione. In fondo, il problema della tradizione è il problema della memoria, così come Benjamin l’ha condensata nella celebre formula: “La morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare”.


d.Per tutta la durata della storia, Bell vive immerso e sommerso dalla storia dei suoi avi, parenti che come lui erano sceriffi. Lasciando il suo impiego stabilisce una cesura rispetto alla tradizione, come ha detto lei, ma nel sogno pare che anche l’idea stessa di progresso venga rivoltata, il padre che passa davanti al figlio per accendere una fiammella di speranza. Più volte nel libro Bell invoca la venuta di Cristo quale unico antidoto alla stato delle cose attuale. Quindi una palingenesi, un’idea antica ma anche popolare di rifiuto dello status quo; invece nel sogno l’idea di progresso verso il futuro, e di tempo lineare, mi pare vengano sovvertite in maniera più radicale.


G.G.
– “Il padre che passa davanti al figlio” – non avevo considerato la parabola finale di Bell da questa angolatura interpretativa, ne davo cioè una lettura comunque progressiva, sia pure di un progresso interrotto, malato, in crisi – ma pur sempre un progresso; ma mi sembra che il richiamo frequente del Bell del romanzo al Cristo apportatore di salvezza confermi la mia interpretazione: in fondo, il “nuovo tempo” inaugurato dall’Avvento del Cristo è un tempo destinato a sovvertire il continuum pagano – in questo senso, allora, il padre non sorpassa il figlio, ma semplicemente lo precede, è letteralmente un precursore, rappresentante cioè di una concezione ‘tipologica’ della storia: tutti coloro che intendono apportare una luce di salvezza nel mondo si devono adeguare alla figura del Cristo, divenendo suoi typoi.


d.Bell potrebbe rappresentare una versione di etica debole? Lei dice che non è un uomo contemplativo, e infatti non pare al di sopra degli eventi, anzi è sempre in ritardo su quello che accade, è sempre un passo più indietro rispetto all’emergenza dei delitti. Ma Bell conosce il bene solo come memoria del bene, non riesce a metterla in atto. È in questo senso un personaggio post-moderno? O invece è più assimilabile a uno sfondo tragico amletico?
G.G. – Le risponderò con una parabola, quella che racconta Gershom Scholem in chiusura del suo libro Le grandi correnti della mistica ebraica: “Quando Baal-Shem [il fondatore dell’ultima corrente della mistica ebraica] doveva assolvere un qualche compito difficile, andava in un posto nei boschi, accendeva un fuoco e diceva preghiere, assorto nella meditazione; e tutto si realizzava secondo il suo proposito; quando, una generazione dopo, il Maggìd di Meseritz si ritrovava davanti allo stesso compito, riandava in quel posto nel bosco, e diceva: ‘Non possiamo più fare il fuoco, ma possiamo dire le preghiere’ – e tutto andava secondo il suo desiderio. Ancora una generazione dopo, Rabbi Moshe Leib di Sassow doveva assolvere lo stesso compito. Anch’egli andava nel bosco, e diceva: ‘Non possiamo più accendere il fuoco, e non conosciamo più le segrete meditazioni che vivificano la preghiera; ma conosciamo il posto nel bosco dove tutto ciò accadeva, e questo deve bastare’. E infatti ciò era sufficiente. Ma quando di nuovo, un’altra generazione dopo, Rabbi Ysra’el di Rischin doveva anch’egli affrontare lo stesso compito, se ne stava seduto in una sedia d’oro nel suo castello, e diceva: ‘Non possiamo più fare il fuoco, non possiamo dire le preghiere, e non conosciamo più il luogo nel bosco: ma di tutto questo possiamo raccontare la storia’. E il suo racconto da solo aveva la stessa efficacia delle azioni degli altri tre”.
Mi sembra cioè una buona allegoria anche del sogno di Bell: la tradizione è oggetto di una forte corrosione, di una progressiva perdita di realtà, quel che rimane è solo la possibilità di raccontarla – per di più avendone perso le chiavi interpretative “forti”; questa è, se vuole, un’etica debole, tipicamente post-moderna (anche se sul post-moderno trovo non si debba indulgere troppo, alla Eco, come gioco semiotico infinito; ma solo considerarlo nella tragicità del suo “post-”. In questo senso ogni personaggio amletico è un “post-personaggio”).


Il male è dia-bolico: Chigurh, lo sterminatore

d.Veniamo al personaggio di Chigurh. Lo si potrebbe intendere un personaggio diabolico, ma ascoltando e leggendo le sue battute, egli pare legare il suo agire a una sorta di necessità inestricabile. Come quando tira la monetina per aria al fine di decidere la sorte delle sue vittime. Chigurh dice: “Io e la monetina siamo arrivati allo stesso punto”. Pare sradicato dalla libertà di decidere. E in questo è assolutamente inumano. Chigurh è un cavaliere dell’Apocalisse?
G. G. – Certamente Chigurh è un personaggio enigmatico. Ma, come la Sfinge di Edipo, lo è solo se lo si interroga appunto come “personaggio” nella sua interezza; mentre invece a me pare una “funzione”, che possiede solo un lato, o meglio è dominata (‘posseduta’) dal suo essere funzione – che è quella di distruggere, come quella della Sfinge è di interrogare Edipo, ovvero metterlo in crisi. Si tratta allora di chiedersi che tipo di funzione incarni; e in questo senso mi pare molto calzante la sua definizione di Chigurh come qualcuno “sradicato dalla libertà di decidere”. La questione allora diventa: Chigurh incarna la tyche greca, o se preferisce il destino imperscrutabile (il filo delle Parche), o è piuttosto funzione necessaria all’“economia della salvezza” evocata da Bell, ovvero ‘antitipo’ del Cristo, in una parola Satana? Non si tratta qui, beninteso, di deciderne il sottofondo concettuale – pagano o cristiano – ma di stabilirne il posto in una filosofia della storia.
Più concretamente, Chigurh è il lato “dia-bolico” di una fiaba che ha il suo momento altamente “sim-bolico” in Bell. Intendo dire, cioè, che mentre Bell intende “tenere insieme” i diversi momenti dell’esistenza, raggruppandoli nel loro momento etico più alto – quello sancito dal “salto” nel simbolo – Chigurh mi pare invece agito da un’istanza divisoria, “dia-bolica” appunto; intesa a separare una volta per sempre i diversi piani dell’esistenza. Come ha scritto quello che ritengo un grande filosofo italiano, Vincenzo Vitiello, nel suo ultimo libro: “Senza il mondo non ci sarebbe il male, senza il molteplice non sarebbe il male. Ma male è più che negatività. Male è il molteplice non relato all’uno, il molteplice che vale di per sé, il niente separato dal possibile” (Ripensare il cristianesimo. De Europa, p.244).


d.Socrate diceva: “Se tu sapessi davvero quello che stai facendo non faresti il male; il male lo fai perché non sai quello che stai facendo”. Ma anche nel Vangelo c’è un tratto che dice questa inconsapevolezza che avvicina, che identifica il male col fatto di non sapere quello che stiamo facendo: “Signore, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Llewelyn pare consapevole di fare delle scelte dirimenti per il suo destino e in fondo giustifichiamo il suo “piccolo” misfatto. Il male perpetrato da Chigurh invece è irrazionale, ma allo stesso tempo affiancato da un’etica rigorosa che lo porta a uccidere la moglie di Llewelyn in nome della parola che aveva dato a quest’ultimo. Come si scioglie questo tragico paradosso?
G.G.
– Mi pare molto importante questo aspetto. Per riprendere quanto dicevo sopra: quella di Chigurh non la definirei “un’etica rigorosa”, ma piuttosto “un ethos rigido”, ovverosia diabolico nel senso che ho illustrato; si parva licet, è lo stesso di Terminator e di tutte le altre macchine “programmate per uccidere”. In questo senso non vi è paradosso, ma solo resistenza al male da parte di chi, come la moglie di Llewelyn, non accetta questa logica. Il fatto poi che, a differenza di quanto avviene nel romanzo, il suo brutale assassinio da parte di Chigurh non venga mostrato, mi pare possa essere spiegato proprio in riferimento al suo ethos “diabolico”: un comportamento che anche l’occhio, mi verrebbe da dire, si rifiuta di vedere.


L’eterogenesi dei fini, ovvero non c’è un uomo giusto sulla terra: Llewelyn

d. – In tutta questa storia di incredibile e insensata violenza non le pare singolare che tutta la vicenda scaturisca dalla buona azione di Llewelyn che va a portare l’acqua al messicano in mezzo al deserto? È solo un pretesto narrativo?
G.G. – Nient’affatto, mi sembra invece un motore fondamentale del decorso filosofico cui assistiamo nello svolgersi del film: il mondo moderno è strutturato cioè intorno a una continua e metodica eterogenesi dei fini, che trasforma fini cattivi in buoni e viceversa. La buona azione di Llewelyn è cioè in modo diretto consunstanziale alla “cratodicea” che si sta svolgendo sotto i nostri occhi; oggetto del processo è la conquista del potere – soldi, successo, eccetera, ma soprattutto: potere di vita e di morte.


Violenza senza catacarsi: Cormac McCharty e i fratelli Cohen davanti al genere Western

d.Dal punto drammaturgico McCarthy ha scomposto la struttura del Western classico e i Cohen hanno mutuato fedelmente il modo di procedere del libro, riuscendo nel proposito di far coincidere forma e contenuto del film. I due fuorilegge, Llewelyn e Chigurh, non si scontrano mai né tra di loro né con lo sceriffo, la legge non viene ripristinata, e il cattivo non viene ucciso. Pensa che questa destrutturazione del genere fosse necessaria alla collocazione moderna di quest’opera, e qual è la sua attualità? Cosa ci dice del nostro presente?
GG – Non è un paese per vecchi è un grande film, perché, come scrisse Walter Benjamin, “un’opera significativa – fonda il genere oppure lo liquida; nelle opere perfette le due cose si fondono”.
Mi pare che tutta l’opera di McCarthy testimoni della difficoltà intrinseca a questa frase, del rapportarsi di un’opera letteraria a un genere determinato – in questo caso il western, come giustamente lei ricorda; una difficoltà che McCarthy risolve nel farlo esplodere, utilizzandone il pattern di fondo (che è quello di Mezzogiorno di fuoco, come in fondo giustamente lei riassume) solo per mostrarne l’inadeguatezza al tempo attuale (se si vuole, è anche una grandiosa raffigurazione dell’impossibilità di realizzare un’epica ai giorni nostri). Ma non conosco così bene il romanziere americano da potermi produrre in un giudizio complessivo sulla sua opera. I fratelli Cohen fanno un grande film appunto perché riescono a fondere il momento fondativo e quello finale del genere.
Per quanto riguarda il messaggio che esso rivolge alla nostra attualità: non so bene come esprimerlo – certo c’è un messaggio interno allo “specifico filmico”, come si diceva una volta, che mi preme anzitutto sottolineare: la violenza contenuta in questo film è di segno specularmente opposto a quella dei film di Quentin Tarantino; mentre in questi la violenza diventa calligrafia, esercitazione di stile fine a se stessa (e dunque si auto-nomizza, producendo un’estetica che non esito a definire “fascista” – se per fascista si intende il culto estetico della violenza che diventa scopo a se stessa), qui vi è continuamente lo sguardo di Bell che giudica – e condanna – tale esplodere di violenza. Alla violenza senza morale tarantiniana si sostituisce così, tendenzialmente, una morale senza violenza. E questo mi pare un messaggio non da poco.


1 Gabriele Guerra è professore associato di Letteratura Tedesca presso l’Università di Roma “La Sapienza“.